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29 settembre 2025
di Alessandro Fornaro
Rif. rivista N6 | NUOVO COLLEGAMENTO 2025
IBS E MICI: SINTOMI SIMILI, STORIE DIVERSE
In farmacia incontriamo ogni giorno persone che raccontano disturbi intestinali: dolori addominali, gonfiore, diarrea, stanchezza. Dietro questi sintomi, però, possono nascondersi realtà molto diverse. Da un lato, la sindrome dell’intestino irritabile (IBS), un disturbo funzionale che non danneggia i tessuti ma pesa sulla qualità di vita; dall’altro, le Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali (MICI), come la colite ulcerosa e la malattia di Crohn, patologie serie e complesse che lasciano segni concreti sull’organismo. Riconoscere i campanelli d’allarme, distinguere tra disturbi funzionali e infiammatori e comprendere le differenze tra Crohn e colite ulcerosa significa per noi farmacisti diventare il primo filtro attento e consapevole, capace di indirizzare i pazienti al percorso giusto.

Quante volte, dietro il banco, ci capita di ascoltare clienti che lamentano problemi intestinali? Diarrea che non passa, dolori addominali ricorrenti, gonfiore, perdita di peso “inspiegabile”. A volte basta poco: qualche consiglio alimentare, un integratore, un breve ciclo di fermenti lattici. Ma altre volte, e lo capiamo subito, la storia che ci viene raccontata è diversa. Più pesante, più persistente. E in quei momenti sappiamo di doverci fermare, ascoltare con la massima attenzione e capire se i disturbi ai quali ci troviamo di fronte richiedano un approfondimento medico. Occorre infatti fare una prima importante distinzione tra due diverse famiglie di disturbi: quelli funzionali, in cui l’intestino soffre ma non è danneggiato; e i disturbi infiammatori cronici, in cui la parete intestinale è davvero colpita e la malattia lascia il segno.

IBS: quando il dolore è reale ma invisibile
Tra i primi, ovvero quelli funzionali, c’è un protagonista che ricorre con frequenza e che spesso confonde i pazienti: la sindrome dell’intestino irritabile, o IBS. È un disturbo che, a differenza delle forme infiammatorie croniche, non consuma la mucosa e non lascia tracce visibili agli esami, eppure può pesare moltissimo sulla qualità di vita di chi ne soffre. 
Lo sappiamo bene, perché ce lo raccontano in tanti: dolori addominali che vanno e vengono, pancia gonfia come un palloncino, scariche di diarrea alternate a periodi di stipsi, e quel fastidioso muco nelle feci che genera allarme ma che non è segno di un’infiammazione vera e propria.
Si tratta di una condizione che oggi non definiamo più semplicemente “colite nervosa”, come accadeva in passato. La medicina ci parla di un disturbo dell’interazione intestino–cervello: un dialogo alterato tra il sistema nervoso centrale e l’apparato digerente, in cui giocano un ruolo la motilità intestinale, la sensibilità viscerale, il microbiota e anche i fattori psicosociali. 
Non c’è una lesione organica o un fattore eziologico specifico che possiamo indicare al paziente, e questo rende la sindrome difficile da accettare: il dolore è reale, i sintomi sono reali, ma l’intestino, visto dall’interno, appare intatto.
La diagnosi, di conseguenza, è clinica: non c’è un test che la confermi, non c’è un marcatore specifico. Si costruisce sul racconto del paziente e sull’applicazione dei cosiddetti criteri di Roma, che descrivono proprio quel pattern ricorrente di dolore e alterazioni dell’alvo. 
È per questo che il nostro ascolto in farmacia è così importante: spesso siamo noi a raccogliere per primi i pezzi del puzzle, a notare che i sintomi tornano da mesi, che non ci sono segnali d’allarme come sangue nelle feci o calo ponderale, ma che il disagio resta.
E proprio perché parliamo di una malattia così sfuggente che il nostro compito assume una importanza particolare anche a livello comunicativo: non dobbiamo lanciare un’allerta (come nel caso di una possibile MICI), ma dobbiamo invece restituire al paziente la consapevolezza che la sua sofferenza ha un nome, che non è immaginaria, e che esistono strategie di gestione efficaci. 
La dieta, la regolazione del microbiota, l’attività fisica, le tecniche di gestione dello stress diventano strumenti concreti da affiancare, quando serve, a farmaci sintomatici.

Tutto questo si traduce in alcune domande-chiave che ci indirizzano sul binario giusto: il dolore cambia con l’evacuazione? L’alvo è diverso nel ritmo o nella consistenza? C’è gonfiore che va e viene? In presenza di questi sintomi restiamo probabilmente nel cerchio della IBS. Quando invece entrano in scena sangue nelle feci, febbre, perdita di peso, anemia o diarrea notturna che sveglia dal sonno, il discorso cambia: sono campanelli che non appartengono alla fisiologia della IBS e che meritano un approfondimento medico. 
Anche le principali raccomandazioni cliniche li considerano segnali di invio a valutazione specialistica.

MICI: l’infiammazione che lascia il segno
A questo punto restringiamo il cerchio e arriviamo al nucleo delle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali (MICI). 
Qui l’infiammazione è consistente, persiste nel tempo e può alternare fasi di riacutizzazione e periodi di remissione. Non colpisce solo l’intestino: può manifestarsi anche fuori, con artriti, infiammazioni oculari o cutanee. 
Il quotidiano dei pazienti ne risente in modo profondo; il nostro compito è riconoscere quando il racconto che ascoltiamo “suona” come infiammazione cronica e non come semplice disfunzione. 
Dentro le MICI, occorre distinguere tra due situazioni distinte: la colite ulcerosa e la malattia di Crohn. 
La colite ulcerosa gioca in casa del colon e del retto e lo fa in modo continuo, senza “salti”: colpisce la mucosa, creando ulcere superficiali. Clinicamente, il paziente parla quasi sempre di diarrea con sangue rosso vivo e muco, urgenza e quella sensazione irritante di non aver svuotato del tutto. Uno dei sintomi più caratteristici della colite ulcerosa è, infatti, proprio il tenesmo. A spiegarlo in termini clinici potremmo dire che si tratta della sensazione di incompleto svuotamento intestinale. Ma se lo traduciamo nel linguaggio dei pazienti, diventa molto più concreto: chi ne soffre racconta di una continua urgenza di andare in bagno, come se l’intestino non fosse mai del tutto vuoto. Anche dopo l’evacuazione, la percezione rimane, quasi ossessiva. 
Ci si alza dal water e già si ha la sensazione di doverci tornare, spesso solo per eliminare una piccola quantità di muco o di sangue. È un sintomo che pesa molto sulla vita quotidiana, perché non è solo fastidioso dal punto di vista fisico: porta con sé ansia, imbarazzo, difficoltà a gestire i tempi della giornata. Chi convive con il tenesmo non riesce a programmare un viaggio, una riunione o anche solo un’uscita con gli amici senza la paura di dover correre in bagno all’improvviso. 
Ed è proprio questa dimensione pratica, quasi “sociale”, che noi farmacisti cogliamo subito parlando con i nostri clienti. 
Per questo, quando un paziente ci descrive quella urgenza costante e quella sensazione di non aver mai finito davvero, dobbiamo accendere un campanello d’allarme: non siamo di fronte a una banale “colite nervosa”, e forse nemmeno ad una situazione di IBS, ma a uno dei segni tipici di una malattia infiammatoria cronica che merita attenzione specialistica.

Crohn: l’altra strada dell’infiammazione
Se la colite ulcerosa ha un andamento più “ordinato”, confinato al colon e al retto, la malattia di Crohn si distingue per un carattere molto più nomade e imprevedibile. Non sceglie un’unica sede: può comparire ovunque lungo il tratto digerente, dalla bocca fino all’ano. Ma non solo. A differenza della colite ulcerosa, che procede in modo continuo, il Crohn si manifesta “a chiazze”: tratti malati si alternano a porzioni perfettamente sane, in un mosaico difficile da prevedere.
Anche la profondità dell’infiammazione cambia radicalmente. 
Nella colite ulcerosa è la mucosa a soffrire, con ulcere superficiali e sanguinamento evidente; nel Crohn, invece, l’infiammazione è transmurale, cioè scava tutti gli strati della parete intestinale. 
Questo porta a conseguenze molto più invasive: ulcere profonde, stenosi che restringono il lume fino a ostacolare il passaggio delle feci, fistole che mettono in comunicazione tratti diversi dell’intestino o che raggiungono la cute, fino ad arrivare a quadri complessi di malattia perianale. È una patologia che non si limita a “irritare” l’intestino, ma lo trasforma nella sua struttura.
Dal punto di vista clinico, il racconto del paziente con Crohn è diverso da quello con colite ulcerosa. Chi soffre di colite ulcerosa parla quasi sempre di diarrea con sangue rosso vivo e muco, di urgenza continua, di tenesmo: la corsa in bagno senza sollievo, la sensazione di non svuotarsi mai del tutto. Chi ha il Crohn, invece, descrive spesso una diarrea cronica che non accenna a fermarsi, anche di notte, senza sempre la presenza evidente di sangue. Il dolore è localizzato, tipicamente nella parte bassa a destra dell’addome, e viene raccontato come un fastidio ricorrente, quasi puntuale, che ritorna sempre nello stesso punto. A questo si aggiungono stanchezza persistente, perdita di peso non voluta, febbricola che va e viene. E non mancano le manifestazioni extraintestinali: afte in bocca, dolori articolari, arrossamenti cutanei.
Per noi farmacisti, la sfida è proprio nell’ascolto attento di queste storie. Chi ci parla di urgenza evacuativa e sangue vivo ci porta con la mente verso la colite ulcerosa. 
Chi invece racconta diarrea notturna, dolore addominale localizzato e dimagrimento inspiegabile ci orienta con buona sicurezza verso il Crohn. 
Non ci compete la diagnosi, certo, ma ci compete il compito di accendere il giusto campanello d’allarme: dire chiaramente che quei sintomi non possono essere liquidati come una “colite nervosa” o un semplice disturbo passeggero.
In questi casi, il nostro intervento non è un farmaco da banco, ma una frase che può cambiare le cose: “È importante che ne parli subito con il medico”. 
Spieghiamo perché: perché il Crohn è una malattia che non va sottovalutata, che ha bisogno di accertamenti mirati e di terapie capaci di controllare l’infiammazione prima che lasci danni permanenti. 
E rassicuriamo: non è debolezza né suggestione, ma un insieme di segni che meritano attenzione specialistica.
Il nostro ruolo, quindi, non è solo distinguere tra un dolore addominale da IBS e una diarrea da MICI. È anche saper riconoscere quale MICI ci sta parlando il paziente. 
E se impariamo a cogliere le sfumature dei racconti - sangue vivo e tenesmo da un lato, diarrea notturna e dolore localizzato dall’altro - allora non stiamo semplicemente scegliendo un eventuale prodotto da consigliare. 
Stiamo facendo molto di più: diventando sentinelle preziose, capaci di intercettare la malattia e guidare il paziente verso il percorso giusto.

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