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10 dicembre 2010
di
Rif. rivista Dicembre 2010

La psiche esercita un ruolo fondamentale nella risposta farmacologica. Effetto placebo, effetto nocebo e fiducia nel medico: le prospettive sono interessanti.

Quante volte nella nostra quotidianità ci è capitato di parlare di "effetto placebo" e di utilizzare il termine per descrivere qualcosa di scarsa efficacia, un meccanismo poco funzionante? Il reale significato del termine ne smentisce tuttavia l'uso nel comune parlato, poiché per definizione può essere inteso come "un insieme di fattori extrafarmacologici capaci di indurre modificazioni dei processi, anche biologici, di guarigione, intervenendo a livello del sistema psichico di un individuo." Si tratta di una serie di reazioni, non derivanti dai principi attivi insiti nella terapia farmacologica, ma dalle aspettative del paziente, che contribuiscono in modo considerevole all'efficacia di una terapia specificamente attiva. Per questo motivo, nella sperimentazione clinica di un nuovo farmaco si è soliti confrontare i risultati della molecola con un placebo; questo tipo di studio avviene generalmente in doppio cieco, dove, né il paziente, né il medico sono al corrente di quale sia il farmaco, proprio per evitare qualunque forma di condizionamento mentale. Il sistema nervoso è infatti in grado di indurre modificazioni neurovegetative, producendo una serie numerosa di endorfine, ormoni, mediatori, capaci di modificare la percezione del dolore, gli equilibri ormonali, la risposta cardiovascolare e la reazione immunitaria; si tratta di un vero e proprio meccanismo psicosomatico che può essere facilmente paragonabile alla guarigione spontanea da un sintomo o da una malattia. In accordo con le attuali teorie, i meccanismi responsabili dell'effetto placebo sono i riflessi condizionati e le aspettative del paziente. Pavlov, Nobel per la medicina nel 1904, diede la definizione di riflesso condizionato, conducendo delle ricerche sulla fisiologia della digestione; egli dimostrò come facendo vedere del cibo a un animale, le ghiandole digestive cominciassero a funzionare e di come la cessazione di questo stimolo visivo, determinasse un arresto nella secrezione ghiandolare. Adattando questi studi a misura d'uomo: molti pazienti che in seguito ad una prima esperienza con un farmaco, osservano un'attenuazione dei sintomi, saranno convinti in modo del tutto incosciente, che al manifestarsi di nuovi sintomi potranno nuovamente usufruire della terapia farmacologica con un esito positivo. La naturale conseguenza di questo meccanismo è che su di essi anche un placebo avrà l'effetto atteso. Tuttavia, se il paziente dovesse rendersi conto che la cura sta avendo un effetto più attenuato rispetto alla prima volta in cui si era sottoposto alla terapia, la predisposizione all'effetto placebo si ridurrebbe e con essa si perderebbe ogni possibilità di condizionamento del soggetto.

La fiducia nel medico

Non tutti, infatti, sono a conoscenza dell'esistenza dell'effetto nocebo che si verifica quando un atto terapeutico provoca un effetto negativo su un sintomo o su una malattia indipendentemente dalla sua specifica efficacia, evento che a volte è determinato da un cattivo rapporto medico-paziente. In effetti, il paziente nutre delle aspettative di cui è perfettamente consapevole. L'atteggiamento del medico e il rapporto di fiducia che spesso si instaura, possono determinare l'efficacia di una cura, si parla in tal senso di iatroplacebogenesi. Un sondaggio sulle abitudini nella pratica clinica dei medici statunitensi, ha evidenziato come il 34% del campione intervistato, consideri il placebo uno strumento valido in grado di aiutare senza nuocere al paziente; per il 19% si tratta comunque di "un farmaco", mentre il 9% è convinto sia un medicinale senza effetti specifici. Fra chi invece non utilizza questa soluzione, il 12% è convinto che bisognerebbe addirittura vietarla perché, la reazione psicologica del paziente potrebbe avere delle conseguenze sulla sua salute. Proprio per questi motivi, preferiscono suggerire come valida alternativa la meditazione, lo yoga e le tecniche di rilassamento.

La forma farmaceutica e la psiche

Anche le modalità di somministrazione di una terapia farmacologica giocano un ruolo importante, è stato dimostrato che il colore, la dimensione, e la forma delle compresse orali, possono esercitare un'influenza sulla psiche; le pillole di colore rosso, giallo e arancione creano l'aspettativa che la pillola abbia un effetto stimolante, mentre i colori blu e verde danno l'impressione che la sostanza serva a calmare. Un'altra idea diffusa è quella secondo la quale, dopo aver visto qualcuno trarre beneficio da una terapia farmacologica, ci si senta meglio, quando si è sottoposti alla medesima somministrazione anche se si tratta di un placebo; alcuni studi hanno evidenziato come questo accada grazie all'attivazione delle stesse aree della corteccia cerebrale responsabili dell'effetto placebo, attraverso un meccanismo neuronale che i ricercatori definiscono "a specchio".

L'importanza degli studi sull'effetto placebo

è chiaro come l'avvento della farmaco genetica abbia spostato il fuoco sulla possibilità di orientare ad personam le terapie farmacologiche basandosi sulle differenze genomiche e le diverse capacità di metabolizzare i farmaci; migliore l'effetto con il dosaggio ottimale. I test di farmacogenetica (PGx test) detengono di conseguenza un grande potere, la possibilità di migliorare gli esiti delle terapie e di ridurre gli effetti collaterali, grazie alla selezione degli agenti terapeutici. Si è appena detto quanto la risposta ai farmaci possa essere manipolata da suggestioni verbali, per questa ragione sorge un particolare interesse nell'indagarne il potenziale impatto sui pazienti; si può parlare di un vero e proprio effetto placebo, considerando il valore che potrebbe avere comunicare l'efficacia di una terapia specifica, rafforzata dalla rassicurazione che la risposta positiva alla cura sia determinata da una predisposizione genetica? Accanto alla finalità primaria dei PGx test di guidare la selezione dei farmaci e calibrare il corretto dosaggio, è chiaro come un effetto potenziale possa anche essere quello di aumentare la compliance, rafforzando l'opera di incoraggiamento di medici e farmacisti che potranno avvalersi di una prova autonoma, indipendente e di natura scientifica. Tuttavia, molti sono i livelli di interpretazione e di manipolazione dei risultati; i primi a tradurre i dati scientifici in termini divulgativi sono i tecnici di laboratorio, poi avviene la mediazione del medico verso il paziente e in ultima istanza, la comprensione del paziente dettata dal suo background scientifico e dal suo livello di fiducia nei confronti della scienza e dei suoi rimedi. Numerosi studi hanno confrontato le diverse modalità di comunicazione del rischio genetico; è stato dimostrato come l'effetto catastrofico a seguito di un esito negativo del test dipenda proprio dalla mancanza di rassicurazioni e dalle modalità di comunicazione del personale sanitario. Se ad esempio la condizione genetica del paziente fosse tale per cui per un dato farmaco non esistesse un bersaglio specifico, il paziente potrebbe sentirsi facilmente sfiduciato, anche nei confronti di una cura generica della quale potrebbe comunque beneficiare. Oppure, qualora il paziente scoprisse di non avere una buona capacità di metabolizzare il farmaco e necessitasse pertanto di una dose inferiore per evitarne la tossicità, questo, potrebbe generare una serie di disagi, ansie e preoccupazioni, per i possibili effetti collaterali. Si rendono necessari degli studi per determinare il potere dell'informazione farmacogenetica sulla terapia farmacologica. La ricerca dovrebbe esplorare il potenziale impatto dei risultati dei PGx test sulle risposte psicobiologi che dei pazienti ai farmaci prescritti, al fine di delineare una guida essenziale per un'adeguata comunicazione e ridurre i rischi dovuti all'effetto placebo/nocebo.

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