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02 novembre 2010
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Rif. rivista Novembre 2010

La questione delle farmacie comunali appare sempre più complessa. Una recente legge ha ricondotto la loro gestione alle forme previste col riordino del servizio farmaceutico del 1991. Ma i comuni continuano a cercare strade diverse, non sempre permesse.

Non si tratta di un annuncio pubblicato su qualche giornale specializzato, ma la sintesi di quella che, negli ultimi anni, è stata la forma mediante la quale molti comuni italiani hanno risolto il problema della gestione delle farmacie comunali di cui erano titolari o di quelle ottenute in seguito all'esercizio del diritto di prelazione. Ora però ciò non è più possibile perché una norma approvata alla fine dell'anno scorso riconduce la gestione delle farmacie comunali alle originarie forme previste dall'art. 10 della legge 8 novembre 1991, n. 362 e cioè: a) in economia; b) a mezzo di azienda speciale; c) a mezzo di consorzi tra comuni per la gestione delle farmacie di cui sono titolari; d) a mezzo di società di capitali costituite tra il comune e i farmacisti che, al momento della costituzione della società, prestino servizio presso farmacie di cui il comune abbia la titolarità. All'atto della costituzione della società cessa di diritto il rapporto di lavoro dipendente tra il comune e gli anzidetti farmacisti.

La storia

A questo punto occorre però ripercorrere brevemente la "storia" delle farmacie comunali, dalle origini fino ai giorni nostri. Dopo l'Unità d'Italia nel 1861, nel processo di creazione del corpo normativo del Regno d'Italia a partire dalla legge 22.12.1888, n. 5849 (cosiddetta legge Crispi-Pagliani) si possono trovare infatti gli elementi che permisero l'apertura della prima farmacia comunale a Reggio Emilia nel 1900, per giungere poi ad una specifica previsione nella legge 22.5.1913, n. 468 (legge Giolitti). Tale previsione trovava successivamente conferma nel Regio decreto del 1925 sull'assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni e delle province. Da queste leggi traspariva chiaramente l'intenzione di garantire al cittadino il servizio essenziale della dispensazione dei farmaci, consentendo ai comuni di aprire farmacie anche in deroga alla pianta organica prevista fin dalla legge Giolitti e poi recepita dal Testo Unico delle leggi sanitarie del 1934. La principale motivazione consisteva nella volontà di garantire, tramite i comuni che lo volessero, l'assistenza farmaceutica agli indigenti in un contesto attinente più alla beneficenza che all'attuale concetto di salute sancito dalla Costituzione. Sempre in questo spirito, nel 1968 la riforma Mariotti, con la legge 2.4.1968, n. 475, stabilì che l'apertura delle farmacie comunali avvenisse invece a seguito della revisione biennale della pianta organica, garantendo ai comuni il 50% delle farmacie di nuova istituzione o vacanti sulle quali potevano esercitare il diritto di prelazione. Negli anni seguenti il 1968 quindi, essendo ancora in atto l'espansione demografica, si aprirono numerose farmacie comunali che vennero però, correttamente, gestite o in economia, e cioè direttamente dal comune con proprio personale e con bilancio gravante su quello comunale, ovvero mediante aziende speciali, conosciute meglio come aziende municipalizzate, interamente possedute dai comuni. L'immagine pubblica delle farmacie comunali era così confermata, anche nella sostanza, dalla gestione diretta, oppure dall'azienda speciale totalmente controllata dal comune.

Le privatizzazioni

Successivamente, la legge 8.6.1990, n. 142 sull'ordinamento delle autonomie locali, previde in quali forme i servizi pubblici locali, tra cui le farmacie, dovessero essere gestiti. La citata legge 362/1991 introdusse così i medesimi criteri applicandoli alle farmacie comunali. Gli anni '90, sulla spinta della legislazione comunitaria, videro poi farsi strada le cosiddette privatizzazioni e, nell'ambito di un processo culturale che cominciò a far venire meno la percezione del ruolo sociale svolto dalle farmacie pubbliche, si giunse tra il 1989 ed il 1990 a prevedere la facoltà, per i comuni, di alienare la titolarità delle farmacie possedute. Alcuni piccoli comuni se ne avvalsero, ma sempre in modestissima misura anche per la forte contrarietà che vedeva, su questo argomento, spesso compatte le forze politiche in maniera trasversale. Il susseguirsi di norme in materia di servizi pubblici, sempre più finalizzate all'ingresso dei privati, portò i comuni ad avvalersi della legislazione che, continuamente modificata, apriva ulteriori possibilità di gestione delle farmacie comunali mediante società miste comune/privati. In alcuni casi i comuni mantennero la maggioranza nelle società di gestione, in altri solo una quota minima del 20%. Si badi bene che, secondo questo processo di privatizzazione, seppur parziale, il comune manteneva la titolarità conferendo la gestione per un periodo, variabile sino a 99 anni, a società per azioni appositamente costituite e da società multi servizi. Se da un lato è vero che la società di gestione doveva sottoscrivere un contratto di servizio nel quale il comune, in qualità di titolare delle farmacie, fissava i requisiti di qualità che la gestione doveva garantire, è altrettanto vero che non risultano frequenti i casi di comuni che abbiano fatto valere appieno la propria funzione di controllo, in particolare nei casi in cui erano presenti in misura minoritaria. Il processo di dismissione, seppur parziale, è avvenuto concedendo la gestione alle società partecipate a fronte di un corrispettivo che garantiva la gestione per tutta la durata della concessione. Viene da chiedersi allora se si sia trattato di una vendita di fatto (99 anni sono quasi quattro generazioni), piuttosto che di locazione d'impresa. E questo, laddove il comune è rimasto socio del privato. In alcuni casi invece, avvalendosi della norma contenuta in una delle modifiche al D.L. 25.6.2008, n. 112, si è giunti al conferimento in toto della gestione a privati individuati mediante forme ad evidenza pubblica - in pratica tramite un bando di gara - venendosi così a creare le condizioni per le quali si può ora tranquillamente parlare di affitto d'impresa, anche in relazione a casi in cui la gestione è stata affidata per trenta o più anni. Se ne sono avvalsi prevalentemente i piccoli comuni a fronte di un corrispettivo in unica soluzione, oppure annuale, calcolato mediante una quota fissa più una percentuale determinata in modo variabile. L'espletamento dei bandi di gara e, talora, la scelta stessa della forma di gestione da adottare, ha portato molto spesso a ritardare, anche di anni, l'apertura della farmacia con evidente danno per la popolazione.

Le società dei comuni

Già nella legge finanziaria per il 2008 (legge 24.12.2007, n. 244) al comma 27 dell'art. 3 si ponevano forti limitazioni ai comuni per la costituzione di società che non fossero strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali. A questo punto viene da chiedersi in che modo una farmacia, affittata ad un privato, riesca a perseguire le finalità istituzionali del comune, svolgendo il servizio meglio di una farmacia privata, facendo così venir meno qualsiasi motivazione di pubblico interesse. La recente legge di conversione del D.L. 31.5.2010, n. 78 (legge 30.7.2010, n. 122), e nota come manovra finanziaria, ha introdotto ulteriori e drastiche limitazioni alla costituzione di società, di qualsiasi genere, da parte dei comuni con popolazione inferiore ai 30.000 e di quelli con popolazione tra 30.000 e 50.000 abitanti, stabilendo l'assoluto divieto per i primi e ponendo il limite di una sola società per i secondi. Le società eccedenti tali limiti dovranno essere sciolte entro il 31.12.2011. Il testo di legge dispone anche la costituzione di una commissione ministeriale per stabilire le modalità di dismissione ed eventuali deroghe a tale obbligo. Appare del tutto evidente allora come i comuni minori si trovino così nell'impossibilità anche di costituire società partecipate con i dipendenti. Se a questo si aggiunge l'obbligo del rispetto del patto di stabilità che impedisce, di fatto, le assunzioni di nuovo personale viene meno anche la possibilità della gestione in economia.

Il ritorno alle origini

Nella premessa si è già detto come la legge della fine del 2009 (legge 20.11.2009, n. 166) ha ricondotto la gestione delle farmacie comunali alle forme previste col riordino del servizio farmaceutico del 1991. Forme sulle quali pendono forti dubbi di applicabilità per i motivi sopra descritti, relativi all'impossibilità di costituire società e ad assumere farmacisti. La norma di cui qui si argomenta appare poi l'unica forma (rectius forme), per le farmacie dei comuni, nonostante per altri servizi permanga la possibilità di affidamento a imprenditori o società a capitale totalmente privato. Tale interpretazione sembra anche confermata dal regolamento di attuazione di tale norma (art. 23-bis D.L. 25.6.2008, n. 112 nel testo convertito in legge e aggiornato) pubblicato sulla gazzetta ufficiale n. 239 del 12 ottobre 2010 (D.P.R. 7 settembre 2010 n. 168). La legge 166 con l'art. 20 ha infine fatto salve le gestioni precedentemente affidate a società partecipate da soggetti operanti nel campo della distribuzione intermedia dei medicinali prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo 219/2006.

Conclusioni

Alla luce delle considerazioni fin qui esposte, appare evidente come la gestione da parte dei comuni delle farmacie comunali sia sempre più problematica, essendo stretti tra l'impossibilità di realizzare nuove alchimie giuridiche di gestione e quella di gestire direttamente le farmacie non potendo assumere, di massima, nuovo personale. Ci si chiede allora che senso abbia, ancora oggi, la previsione della prelazione a favore dei comuni, considerato anche il rallentamento della crescita demografica del Paese.

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